La rocca di Vellano di Pescia e l’inventario del castellano fiorentino

Il borgo di Vellano, situato nella “Svizzera Pesciatina”, ma più propriamente nella Valleriana dove scorre il fiume Pescia, mantiene ancora il suo suggestivo aspetto di castello, con al di fuori una pieve antica, documentata prima del Mille. Per la vista di privilegio sui monti e i paesi circostanti fu conteso tra le città toscane al tempo delle crudeli e difficile guerre tra guelfi e ghibellini.
Nel gennaio 1339 però si giunse a una parziale concordia e la guelfa repubblica fiorentina ottenne Vellano, alcuni castelli della Valleriana, Pescia, Altopascio, Montecatini, Fucecchio e altro ancora. E “dopo non poche discussioni ne fu fatta la consegna dai sindaci lucchesi di Mastino [della Scala] in mano di Porcello de’ Cattani da Diacceto”.
La pace ovviamente fu celebrata con feste, giochi, luminarie, e gli esuli ritornarono nei luoghi da dove erano stati cacciati. Il 10 febbraio poi Porcello entrò nel territorio di Pescia conducendo con sé Iacopo del Conte Gabrielli di Gubbio generale dei fiorentini “con tutta la cavalleria e dugenti fanti”. Il giorno 17 fu giurata sottomissione alla repubblica e da questa vennero accordati privilegi agli abitanti.
Molti dei ghibellini si ritirarono a Lucca; tra loro i nobili pesciatini Garzoni ottennero nel 1355 il rinnovo dell’autorità sui loro feudi di Vellano e della Valleriana da parte di Carlo IV (1355), come del resto avevano fatto i suoi avi imperatori (v. in sunto la Storia della Valdinievole, 1846).
La rocca di Vellano restò dei fiorentini che da allora, tramite gli atti dei Priori delle Arti e del Vessillifero di Giustizia, vi mandarono i castellani come responsabili della custodia.
Almeno dal 1340 al 1375, questi ultimi sono ricordati con nome e patronimico nelle pergamene rimaste nell’Archivio di Stato di Firenze, anche se non in modo completo e continuo.
In generale, si apprende, assieme ai soci ne assunsero il governo per il periodo di sei mesi, ricevendo in consegna il fortilizio dai precedenti incaricati con “rebus et massaritias”. Fecero fare di quest’ultime un inventario, che nell’aprile 1353 si trova riportato proprio in una carta scritta nella rocca dal notaio ser Giovanni Diccori da Montecarlo, presenti i testimoni Donato di Bardo, Becco di Fredo da Vellano e Loso di Paganuccio da Poppi.
Il castellano entrante assieme ai quattro soci si chiamava Lupo del fu Drea da “Collegonzoli” (Collegonzi del comune di Vinci) e quello uscente Giovanni di Brando.
Nell’inventario Lupo, oltre a dichiarare la presa di possesso, fece segnare un buon numero di oggetti di qualità e forma le più disparate: “videlicet” (cioè) 79 libbre di sale, due libbre d’olio in un “cuppo”, tre salme di legna, due soppidiani (cassapanche di legno per il vestiario) senza chiavi, due scuri, una campana “triste” perché rotta, una capanna con usci e coperta “palcorum” (di palchi), un desco, sei panche, 13 pezzi di tavole o assi, due lettiere di assi con trespoli, un canapo di 23 braccia (13,34m), due “hostia” (usci) di cinque assi “parum trementis parum potis” (in parte sconnessi e in parte validi), due libbre di stoppa, sei ventiere di cui una rotta (torrette o garitte a protezione accanto ai merli), 11 “gratitia” (graticci), 18 quadrelle grandi (frecce da balestra), cinque corazze, quattro verrettoni (punte da lanciare con la balestra), 26 quadrelle, 50 balestre di cui quattro a staffa, due balestre grosse di legno, quattro crocchi (cinturoni di cuoio per caricare le balestre) e quattro “maestri”, una “lieva” rotta, una “sechiam” di ferro rotta, due lumiere di ferro rotte, quattro elmi di ferro e due chiavi per chiudere, sei barbute (elmi semplici) con maglie, due soppidiani senza chiavi, due barili rotti con dentro il sale, una madia senza coperchio, una tavola di abete con due trespoli, un soppediano grande senza chiave, un barile pieno di aceto, 213 libbre di farina di grano pesata in due sacchi abburattata (separata dalla crusca), sei staia di fave, 44 libbre di carne salata, tre bertesche di assi per sopra le mura (strutture difensive aggiunte), pane “bisschopt.” (biscotto) in sei sacchi per 290 libbre, 54 libbre di panelli di “sepo” e cento libbre di “cerate” (tavole di cera) per bruciare dalle dette panche ad opera e servizio della custodia della rocca (illuminazione e guardia notturna), 58 staia di sale, una sega, sei socchielli tra grandi e piccoli, un canapo di 48 braccia (m. 27,84), un baglio (trave di legno) con una fune, due seghe per incidere il legno, un palo o una pala di ferro, 16 libbre di chiodi al peso 24 libbre, tre verrettoni, 17 quadrelle grosse, sette chiavacci, due anelli dentro bandelle di ferro, una campanella di ferro, una “cuppa” di ferro, un crivello triste, un mortaio in pietra, un pestello di legno, una lucerna di legno.
Lupo, castellano della rocca di Vellano, fece scrivere “rebus et massaritias” così come li trovava e che, secondo le autorità della repubblica, erano essenziali per compiere il suo servizio. Dovette usare, come si vede, poveri oggetti e in cattive condizioni. Ma la comodità non era un’aspettativa che allora un ufficiale uomo d’arme poteva legittimamente desiderare o pretendere ...

Paola Ircani Menichini, 20 aprile 2023.
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